Se non fossero di stirpe reale sembrerebbero due attori: sono bellissimi – e giovanissimi – Jigme Khesar Namgyel, classe 1980, sovrano del piccolo Regno del Bhutan da quando aveva dodici anni, e sua moglie Jetsun Pera (per amor della quale, si narra, abbia rinunciato al diritto alla poligamia). Miti romantici di un paese lontano, incastonato come una gemma fra le alte vette himalayane, al confine con Tibet e India. Miti che altrove riempirebbero le pagine dei rotocalchi ma che qui, fra gli scenari della terra di mezzo, assumono i contorni pacificanti della sacralità. Nazione buddista grande poco più della Svizzera, il Bhutan, 700 mila abitanti al massimo, getta al vento l’isolamento e si apre al turismo. Ma la venerazione degli abitanti per i giovani reali, più affascinanti perfino della super paparazzata coppia britannica Harry-Meghan Markle, è autentica e inossidabile.
Sono molti i motivi per andare in Bhutan. Il primo (il secondo se contiamo la favola reale) è la sensazione di trovarsi fuori dal mondo. Fino agli anni Settanta nessun turista ci aveva messo piede, la televisione è arrivata di recente, il cellulare è raro, tranne che per i viaggiatori desiderosi di instagrammare ogni sua meraviglia, compresi i festival religiosi (tshechu) che si ripetono ciclicamente in base al calendario tibetano. Terra di stupore, di gente autentica e stravaganze emotive dall’allure poetica: qui la felicità è più importante della ricchezza, “Gross National Happiness” contro “Prodotto Interno Lordo”, perché cosa sono i soldi rispetto alla pienezza dei rapporti sociali, la salute (alimentata dalla credenza che fumare faccia male al karma, al punto che la vendita di sigarette è vietata), la qualità della vita? Andate, e fatene tesoro.
In Bhutan si cammina, tanto. Per la felicità di trekker ed escursionisti, si avanza lungo sentieri di montagna in una “giungla” di querce, licheni, felci, pini, alla volta di monasteri buddisti immersi in panorami mozzafiato. Le stesse meraviglie si possono scoprire anche a bordo di un comodo minivan, barattando la fatica della camminata con il comfort di un mezzo a motore. Nella cittadina di Paro si rimane incantati dalle botteghe di legno dipinto e dall’imponente complesso monastico di Rinchen Pung Dzong, immortalato da Bernardo Bertolucci nel film Il Piccolo Buddha. Poi, a nido d’aquila sulla valle compare il Tiger’s Nest, monastero eletto a “simbolo” del Paese. Superato il Dochula Pass ricamato da 108 chorten (stupa commemorativi), nella città di Punakha lo dzong (centro religioso-amministrativo) si specchia nello stesso torrente lungo il quale si svolgono festival e riti sacri. Nel Regno del Drago, come chiamano il Paese i bhutanesi, anche un semplice corso d’acqua possiede un’anima.
Thimphu, la capitale, è un miscuglio di suggestioni-emozioni, vecchio e nuovo, monaci in abiti color porpora e persone in completi tradizionali (gho e kira). Gli appassionati d’arte e d’artigianato s’innamorano dei tessuti in mostra al National Textile Museum, dell’aroma d’incenso nel mercato alimentare, degli ornamenti color oro del National Memorial Chorten, il complesso religioso in stile tibetano frequentato da molti fedeli. Anche il tempio-fortezza di Changangkha Lhakhang, dall’alto di un crinale, è meta di pellegrinaggio. I turisti invece convergono ordinati verso l’ennesimo, suggestivo dzong: quello di Trashi Chhoe, a nord della città, dove nel 2008 è stato incoronato il quinto – bellissimo, giovanissimo – sovrano, Jigme Khesar Namgyel.
L’ultimo motivo per scoprire il Bhutan è un misto di sacro e profano: la spiritualità che avvolge gli altari, le statue delle divinità, i luoghi di preghiera, fino ai poetici centri religiosi e le fortezze-monastero d’alta montagna. E la cucina tradizionale, a base di riso e condimenti al peperoncino, che piace sempre a tutti, se non altro perché questa spezia piccante a chilometro zero fa parte, per i bhutanesi, dell’elenco delle cose che rendono felici. Volendo c’è anche un’altra ragione, forse ancora più importante: dalle valli alle colline e gli altopiani centrali incisi dai fiumi, fino ai mitici settemila dell’Himalaya, tutti si fonde e si ricompone come sotto l’effetto di un incantesimo: i dzong e la natura, le tradizioni autentiche, la semplicità come preludio alla gioia di vivere. Sempre sotto lo sguardo (felice, di sicuro) del re. O gli occhi meravigliati dei turisti alle prese con un mondo sperduto nel suo remoto isolamento asiatico.
PS Il californiano Michael Juergens, fra i più importanti esperti di viticultura, dopo aver scoperto il Bhutan e i suoi terreni fertili, ha ottenuto dal re il permesso di piantare ettari di vigneti. Di solito non sbaglia un colpo, così tutti si aspettano ottimi merlot, sauvignon, cabernet franc, pinot nero, malbec e chardonnay. Chissà se piaceranno anche ai monaci.