Un viaggio può nascere in mille modi: perché lo sogni da quando eri piccolo, perché hai visto un documentario in tv, perché ci è appena stato il tuo migliore amico. Il mio viaggio in Perù è nato per caso, girovagando fra gli scaffali di una libreria milanese in cerca di un romanzo e finendo – come sempre – nella sezione guide turistiche. Non so dire con precisione perché, fra centinaia di volumi, mi sono messo a sfogliare un fotografico su questo straordinario (ma allora non lo sapevo ancora con certezza) Paese del Sud America. Fatto sta che ho comprato il libro, ho prenotato il volo (non prima di aver acquistato tre titoli di Mario Vargas Llosa, Premio Nobel peruviano) e infine eccomi lì, a camminare fra le vie e le piazze di Lima, respirando l’incanto coloniale di Plaza Mayor e pregustando con la fantasia l’arrivo al Machu Picchu: la superstar nazionale, misterioso emblema del mondo Inca.
Al Machu Picchu non arrivi subito. Prima devi passare da Cusco, una città bellissima a quota 3400 metri, antica capitale dell’Impero Inca e cuore storico della nazione, con i vicoli acciottolati che sbucano in piazze monumentali come Plaza de Armas, idillio architettonico con le silhouette barocche della Cattedrale e della chiesa della Compagnia di Gesù a contendersi la scena. Attorno alla città ci sono dei siti archeologici che consiglio di visitare, come consiglio di rimandare di un giorno la visita al Machu Picchu per assaporare i magici scenari della Valle Sacra, il serbatoio di ricchezze naturali che si scopre con un’escursione in direzione Aguas Calientes.
La poesia di questa vallata incorniciata da montagne color smeraldo è seconda solo al fascino ipnotico del fiume che la percorre e ai campi di mais (il migliore della nazione) che si rincorrono a perdita d’occhio fino alle Saline di Maras, 3000 pozze disposte a terrazza che se non fosse per le montagne sembrerebbero la gigantografia delle concerie a Fès, o certi ricami di un quadro di Klimt, ma senza colori. Aguas Calientes la raggiungo in treno dalla stazione di Ollantaytambo, dove salgono anche gli escursionisti dell’Inca Trail, il sentiero di 43 km che dà vita, in un continuo saliscendi, al trekking più famoso del Sud America.
Per tutti, la destinazione è il Machu Picchu: un luogo sospeso nel tempo, la città sacra degli Inca di cui non vi racconto l’origine (la trovate in tutte le guide), ma la sensazione che si prova davanti alla maestosità delle rovine a cielo aperto, allineate attorno al prato della piazza centrale, nell’anfiteatro di montagne dove galleggiano nuvole soffici come vapore. In quel luogo che ha incantato poeti e stregato Che Guevara («Un enigma di pietra in America», affermò quando vi giunse nel 1952; chi ha visto il film I diari della motocicletta lo ricorderà bene), percepisci l’eternità e la sacralità del mondo.
Anche la Cordigliera delle Ande ha qualcosa di sacro, così come il Lago Titicaca, il più grande del continente, a 4000 metri di altitudine sull’altopiano al confine con la Bolivia. Navigo alla volta delle isole fluttuanti degli Uros, la popolazione preincaica che vive in parte del bacino, e verso quella naturale di Taquile, dove gli abitanti danno vita a un’arte tessile dichiarata dall’Unesco Patrimonio immateriale dell’umanità.
Fra bancarelle, musiche, i balli in costume dei giorni di festa della popolazione lacustre, saluto il Perù diretto verso un’altra magia, l’isola di Aruba. La guida acquistata in libreria non ne parla, e come potrebbe, questo non è Perù ma un incanto di spiagge borotalco che fa parte dell’arcipelago caraibico (anche se la costa più vicina è quella del Venezuela), con temperature miti tutto l’anno per l’assenza di monsoni. I cactus che crescono qua e là per effetto del clima secco mi fanno pensare all’Arizona o al Messico, ma decido di non pensarci, di staccare la spina e di godermi quel mare da cartolina che sembra un cielo capovolto. Carpe Diem o, più semplicemente, benvenuti in paradiso.