La crociera sul Lago Ashi – e la salita in teleferica sul Monte Komagatake – sono una pausa rigenerante dopo la frenesia di Tokyo. Il punto di passaggio dalle meraviglie urbane della capitale proiettata verso il futuro (e le attesissime Olimpiadi del 2020), all’anima più autentica del Giappone, fatta di rituali del tè e bagni caldi nelle onsen che non sono semplici terme ma un “percorso iniziatico” verso la pulizia del corpo e dello spirito. Indossato lo yukata, il leggero kimono in cotone, e le geta (sandali in legno), mi avvicino alle vasche che nessun giapponese si sognerebbe mai di paragonare a un idromassaggio occidentale: fra i vapori densi come batuffoli di cotone sprigionati da queste acque ricchi di minerali, ci si dimentica dei pensieri e dei problemi per lasciarsi cullare come in un gigantesco grembo materno, fino a provare un infinito senso di pace.
Cartoline dal Paese del Sol Levante. Dove il viaggio della purificazione comincia a bordo di un treno proiettile Hikari da Tokyo a Nagoya, per poi proseguire alla scoperta di curiosità come le antiche locande dei samurai nei villaggi di Tsumago e Magome, con le atmosfere da Giappone feudale protette da una campagna meravigliosa. Ma è a Takayama, la città abbracciata da una corona di montagne, che ho lasciato il cuore. Lì ho scoperto i migliori carpentieri del Giappone, i carri cerimoniali protagonisti di festival colorati che si festeggiano in primavera e in autunno, e un palazzo del Governatore tra i più imponenti del Paese. Oltre, naturalmente, al famoso quartiere di Sanmachi-suji con le case in legno e i negozi per la vendita del sakè, e al mercato Asaichi che va in scena ogni mattina lungo le rive del fiume. Poi, varcate le porte di questa città della prefettura di Gifu, un altro incontro magico: quello con le case tradizionali gassho-zukuri dal tetto spiovente in paglia, dove anticamente si coltivano bachi da seta. Un impressionante capolavoro di architettura rurale che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio mondiale dell’umanità.
Kanazawa, la tappa successiva, è una città raccolta attorno agli aceri del suggestivo giardino Kenroku-en, vero distillato di armonia, ed è famosa per la produzione delle foglie d’oro utilizzate nelle decorazioni di architetture (ad esempio, il Padiglione d’oro di Tokyo) e oggetti d’arte. Per ammirarle basta andare al Museo Yasue ricco di manufatti e utensili, ma è il quartiere dei samurai ad attirare la mia attenzione: è stato residenza di famiglie che dall’epoca Edo (1603-1868) hanno messo le proprie lame al servizio del clan regnante, diventando un simbolo per tutti i samurai del Giappone. In questo luogo magico si aprono anche giardini ricoperti di muschio e densi di vegetazione che raccontano l’armonia del tempo che scorre. Poi c’è il quartiere delle geishe: un distretto storico realizzato a partire dall’Ottocento, con le abitazioni in legno dove sopravvive l’eco di quel mondo fluttuante fatto di fruscii di stoffe, tintinnii di porcellane per la cerimonia del tè, ma anche canti, danze e brani suonati con lo shamisen, lo strumento a tre corde, simile a un liuto, che le ragazze dal viso di porcellana imparavano a suonare per i loro facoltosi clienti.
La magia delle antiche tradizioni continua a Kyoto, una città che non ha bisogno di presentazioni, con un patrimonio di circa duemila fra templi (buddisti) e santuari (shintoisti). Camminando lungo le vie che sembrano inseguire il passato, scopro che molte ragazze fanno shopping in kimono, e che nelle immancabili sale da tè tutto si svolge secondo tradizione: dalla purificazione delle labbra alla corretta gestualità di quello che per i giapponesi è un rito antichissimo, al limite del sacro. Dopo la visita al Padiglione d’Oro che si specchia in un lago, mi addentro in quartieri che sembrano distillati di poesia fino al Castello Nijō, eretto a partire dal 1600, e il Santuario Shintoista di Fushimi ai piedi di una montagna.
Ascoltando il vento che fa scorrere nell’aria i suoni della foresta di bambù (quella di Sagano, a pochi chilometri dalla città), poi decido di farmi un regalo e acquisto un paio di zori, i tradizionali sandali infradito, simbolo dell’artigianato del Sol Levante. L’indirizzo che scopro, e che vi consiglio, è Gion Naito: le producono da cinque generazioni e hanno inventato anche una versione contemporanea che in Giappone è subito diventata di moda.