Racconti di viaggio

California fly&drive

Non vorrei scomodare Jack Kerouac e i miti della Beat Generation, ma viaggiare on the road, che per me è sinonimo di libertà, è una di quelle esperienze che tutti dovrebbero fare, almeno una volta. Si parte con la valigia in macchina, si guida, ci si ferma dove si vuole, e a un certo punto si arriva: senza orari e senza obblighi, con le mani sul volante e il finestrino abbassato. La differenza la fa quello che c’è attorno, ovvero, il paesaggio, che nel mio caso era quello della California. Non la litoranea cha da San Francisco corre per circa 400 miglia fino a Los Angeles, ma un’improvvisazione di statali, highway, piccole e grandi deviazioni per seguire l’istinto e andare là dove mi portava il cuore. “Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”, scriveva Kerouac. Scusate se è poco.

“Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo”, sosteneva il filosofo cinese Laozi. Nel mio caso si è trattato di un biglietto di sola andata per San Francisco, che per gli americani è come Parigi per noi europei, la capitale del mito e della bellezza, con i grattacieli del Financial District che dialogano con le case basse dei primi del Novecento e un fascino da Vecchio Continente che la rende unica in tutta la West Coast. Aggiungete il Golden Gate che spunta dalla nebbia, lo skyline di colline, i romantici cable cars e i piers che si allungano sulla baia e capirete perché le poesie della Beat Generation sono cresciute qui, nella Parigi d’America, dove le memorie di Kerouac e Ginsberg esistono ancora, e si sono fatte storia: vanno dal Beat Museum al Caffè Trieste con le pareti tappezzate di fotografie, dagli scaffali del City Lights Bookstore ai murales della Jack Kerouac Alley fra North Beach e China Town. Poi via, mani sul volante, per respirare aria d’oceano e di libertà, alla volta di Sacramento: capitale della California e porta d’accesso alla Napa Valley.

Tra la città moderna e il fiume, la Old Sacramento, cuore storico della capitale, ti ammalia con il suo fascino da film western: insegne in legno, vecchie botteghe, una scuola dell’Ottocento e un albergo in un battello, il Delta King, che è una valida e suggestiva alternativa agli hotel tradizionali. In un attimo si arriva alla Napa Valley, il Chianti della California dove, scopro, la bontà del vino dipende dalle rose. Ogni vitigno ha il suo fiore, dalla Purple Haze alla Regina delle Nevi: fanno da sentinelle, i parassiti attaccano loro prima della vite. Orti e frutteti, aria pulita e colline ricamate dai filari cresciuti grazie alla terra fertile e al sole, ottimi Cabernet Sauvignon e Pinot Noir. Poi tornando verso la baia di San Francisco, la Silicon Valley appare come un mondo marziano, cresciuto nel nome – e nel mito – della New Economy. Potrei visitare il Googleplex a Mountain View e ammirare dall’esterno l’avveniristico Apple Park di Cupertino, progettato da Foster + Partners. Invece scelgo di ripartire. Voglio nutrirmi di natura, abbracciare le sequoie giganti, camminare nei boschi dello Yosemite. E magari sdraiarmi sulla spiaggia di Santa Monica respirando il vento tiepido del Pacifico.

 

Il Lago Tahoe, uno specchio blu incorniciato da una corona di montagne al confine fra California e Nevada, è una pausa per l’anima. Ma la vera regina di questi luoghi è un parco che sognavo fin da piccolo, lo Yosemite dalle pareti di granito e le cascate vertiginose, visitato ogni anno da 4 milioni di viaggiatori (sconsiglio di andarci nel weekend per via della folla) e protetto dall’Unesco. Mi fermo per un trekking ai piedi del monolite granitico dell’Half Dome che buca l’orizzonte, qualcuno quel giorno ha visto l’orso, io non sono così fortunato ma la magia della foresta già di per sé appaga. Abbraccio le sequoie, più piccole di quelle che incontrerò domani al Giant Sequoia National Monument e al Kings Canyon, dove gli alberi secolari sono guardati a vista dal Mount Whitney, la cima più alta del Paese. Pensare che questo Monte Bianco americano di 4421 metri d’altezza dista poco più di un centinaio di chilometri in linea d’aria dal punto più basso di tutti gli Stati Uniti: la Death Valley, deserto di roccia e di effetti ottici a 86 metri sotto il livello del mare.

Se avete voglia di oceano, andate a Big Sur per ammirare gli scorci più spettacolari della leggendaria Highway 1, chiamata anche Pacific Coast Highway, che corre per oltre mille chilometri lungo la costa, fino alle sequoie di Leggett. Passerete Monterey con le sue spiagge affollate di salutisti neo-green, la riserva marina di Pfeiffer Beach dove la sabbia ha i colori dell’arcobaleno, chiari di giorno, viola al tramonto, poi forse punterete dritto fino a Santa Barbara. L’alternativa scenografica è il 17-Mile Drive, un tracciato fra campi da golf e ville milionarie che anticipano quelle, altrettanto eye catching, di Malibù. Questa cittadina a ovest di Los Angeles, è entrata di diritto ai vertici dell’immaginario collettivo grazie all’alta concentrazione di star che l’hanno eletta a proprio buen retito sul mare. Non vedrete nessuno, è tutto protetto da un elegante velo di privacy, ma basta passarci in macchina per respirarne il mito.

Impossibile relegare Los Angeles a un racconto di poche righe, ma visto che parliamo di libertà mi sento di darvi un consiglio: puntate al mare. Anzi, all’oceano, quello del vento teso e dei surfisti, delle cabine azzurre dei bagnini, dei percorsi jogging ritagliati fra i prati e la sabbia, dei tramonti infiniti che accendono di luce Santa Monica e Venice Beach, le “spiagge” della città degli Angeli. Imperdibili il Santa Monica Pier, dove gira la centenaria ruota panoramica, e Chess Park con il gioco degli scacchi. Poi, rigorosamente in macchina, mi avventuro alla volta di Hollywood. Non è una scelta, Los Angeles è un agglomerato infinito di aree urbane collegate da una rete capillare di autostrade, l’unico modo per scoprirla è sedere alla guida della mia decapottabile e mettermi in marcia. “Quaranta sobborghi alla ricerca di una città”: nessuna definizione di L.A. può essere più azzeccata.

Il bello di questo fly&drive dal taglio sartoriale è che me lo sono cucito (appunto) su misura, in base ai gusti e al mood del momento. Ho scelto quando partire ma non quando tornare, o almeno, non subito, e ho improvvisato alcune tappe, scoprendo che il mio istinto di viaggiatore mi aveva comunque portato a fare la scelta giusta. Sono partito con una valigia, una carta di credito e la patente di guida italiana, visto che negli Stati Uniti non è obbligatorio munirsi di quella internazionale. E per tutto il tempo mi sono sentito felice come un bambino. Non vi dirò quanto sono stato via: non voglio influenzarvi, nel caso decidiate di emulare l’esperienza. Spero solo di avervi contagiato con la mia piccola smania di viaggiatore on the road, con il libro “Sulla strada” di Kerouac sempre al mio fianco.