File di ombrelli colorati incorniciano le scalinate d’ingresso al tempio. È giorno di festa al santuario induista di Besakih, e le preghiere dei fedeli si perdono in un suggestivo spettacolo di musiche e colori. Dopo il tramonto le mura verranno spogliate di ogni decorazione, ma l’atmosfera collettiva di consacrazione al divino rimarrà immutata nei gesti, nei pensieri, nelle azioni quotidiane degli abitanti di Bali. Ogni angolo dell’isola è permeato di religiosità. Nelle case, lungo le strade, accanto ai mercati, perfino negli alberghi c’è un piccolo altare che profuma di fiori e d’incenso: un ibisco rosso per Brahma, il Dio della creazione; frangipane bianchi e petali gialli per Mahadewa; scampoli di stoffa nera in onore di Vishnu. Gli stessi colori degli ombrelli che adornano le scalinate di Besakih, santuario dei santuari, tempio madre dell’isola di Bali.
La spiritualità è il compagno di viaggio che a Bali ti segue ovunque, ma la scoperta dell’isola non si limita a templi e divinità. «È come se ci fossero tre luoghi», conferma Arya, la mia guida poliglotta: «La montagna, la parte sacra dove dimorano gli Dei e dove è raggruppata la maggior parte dei luoghi sacri. La foresta, con i villaggi dei contadini. E naturalmente il mare».
L’isola non è piccola ma può essere tranquillamente scoperta in un’unica vacanza, partendo dalla popolare area turistica di Kuta per poi arrivare, appena più a sud, ai lidi sabbiosi dei resort a cinque stelle come l’Ayodya. Rilassarsi sulla sua spiaggia o a bordo piscina è un incanto, ma per vedere i templi bisogna allontanarsi da quell’eden tropicale e dirigersi verso nord. Fino al Pura Luhur Batukaru con i tetti a pagoda “impilati” come perline di una ghirlanda di pietra sacra. Fino al Pura Beji, fra i più antichi dell’isola (è stato edificato nel XV secolo) e al Pura Meduwe Karang sulla costa settentrionale, per poi scendere verso il vulcano Batur e il tempio madre di Besakih, che quando non è festa si mostra in tutta la sua bellezza di pietra grezza e terrazze costruite a più riprese a partire dal XIII secolo. Altri templi incantati accompagnano il viaggio verso Ubud, dove ho cercato gli scorci immortalati nella pellicola di Eat Pray Love con Julia Roberts, e le nostalgiche tracce dei figli dei fiori che, fino agli anni Settanta, avevano eletto il villaggio a loro paradiso tropicale. Venivano qui per imparare l’arte del batik, i segreti della pittura näif-balinese, per contemplare le risaie di Tegallalang: il “mare” verde delle colline a est dell’abitato, dove le sfumature, i ghirigori d’erba, i giochi di chiaroscuri fra i riflessi argentati dell’acqua, sembrano un miracolo della natura. Invece sono il risultato di due assiomi, il duro lavoro agricolo e la fede. La divinità della fertilità concede raccolti abbondanti e i balinesi, per ringraziarla, costruiscono templi. Vederli tutti è impossibile, però suggerisco di non perdere il Pura Kehen, con il primo cortile (ombreggiato da un albero di 30 metri) che rappresenta il mare, e il tempio vero e proprio all’ultimo livello a simboleggiare la montagna.
Poi, sulla strada verso sud-ovest, tappa al Tanah Lot, per via di una particolarità unica: è costruito su uno scoglio, ed è la location perfetta per scattare fotografie al tramonto, quando il sole sprofonda nell’acqua regalando tavolozze cromatiche senza limite di demarcazione fra cielo e acqua. Di tramonti ne ho visti molti, dall’Africa al Nord Europa, ma questo è davvero speciale. Un regalo degli Dei che separa idealmente l’Indonesia votata al divino dal paradiso esotico delle spiagge e dei resort romantici in riva all’oceano. Tutto perfetto, tutto incantevole: chiamatela, se volete, poesia.