Quando la roccia dell’Arizona diventa poesia, lì comincia il Grand Canyon: la fenditura più spettacolare del pianeta Terra non la vedi subito, devi prima attraversare in macchina un altopiano dall’atmosfera metafisica, varcare i cancelli del Grand Canyon National Park, macinare ancora qualche chilometro di ottima strada e impaziente attesa, parcheggiare l’auto e percorrere a piedi il breve sentiero verso l’abisso. Non lo vedi subito perché al canyon ci arrivi “da sopra”, perpendicolarmente all’orizzonte: prospettiva privilegiata per ammirare quel colosso naturale che sprofonda per 1600 metri fra pareti di roccia color giallo zolfo, verderame, rosso, rosa, perfino turchese, simile al fondale di un oceano prosciugato anche se a scolpirlo non è stato il mare ma il fiume Colorado che scorre sul fondo della gola. Il canyon si presta a diverse chiavi di lettura, che poi corrispondono ai differenti modi in cui è possibile esplorarlo, vale a dire a piedi, in gommone, in elicottero, a bordo di un piccolo aeromobile, in autobus, in macchina facendo sosta nei punti panoramici. Qualcuno, come il sottoscritto, si ritaglia anche il raid mattutino per ammirare l’alba, ma in ogni momento lo spettacolo è da Guinness, con il sole che incendia l’orizzonte e il vento che regala una colonna sonora in grado di sedurre milioni di visitatori, tutti meravigliosamente stupiti (e rapiti) da tanta bellezza.
Meta iconica, il Grand Canyon è l’epicentro di un tour nel mosaico di parchi che tratteggia il carattere naturalistico dell’Ovest americano. Non c’è magia più bella della diversità, degli opposti che si attraggono e si respingono, del contrasto: così lascio i grattacieli di Los Angeles per avventurarmi nella densità di un paesaggio che da urbanizzato diventa, via via, sempre più “lonely”, solitario. Passo Scottsdale, Sedona, percorro tratti della leggendaria Route 66, entro nella terra dei nativi americani, attraverso praterie con la sensazione di trovarmi in un non-luogo, ubriacato da ricordi che non ho mai vissuto se non nelle suggestioni di quando, da piccolo, guardavo i film Western in televisione. Finché alla fine arriva, ancora più bella che sullo schermo: è la Monument Valley, ultimo lembo di un mondo che non esiste più, se non nell’immaginazione di un bambino che giocava a indiani e cowboy sognando un giorno, da grande, di andare nel lontano West.
Al confine fra Arizona e Utah, la Monument Valley, all’interno della riserva Navajo, è stata il set di molti kolossal hollywoodiani (oggi girare film è proibito, a causa della fragilità dell’eco-sistema). Dal bar-ristorante all’ingresso ti concedi il privilegio di ammirare il profilo delle rocce che paiono sculture, poi in auto (la tua, oppure le jeep dei navajo attrezzate per accompagnare i turisti) imbocchi la strada che in poco più di 20 chilometri regala emozioni a gogò. Ogni roccia che incroci ha un nome (The Mittens, Three Sisters, John Ford’s Point, Totem Pole…) e molte sono considerate sacre dai nativi, per questo è vietato allontanarsi dalla strada principale, se non in compagnia di una guida: quello che per noi è il set naturale dei film della nostra infanzia, per gli indiani è la madre terra delle origini: il luogo della loro comparsa, in quanto popolo, su questa terra.
Lo show di madre natura prosegue al Lago Powell, un bacino artificiale dominato dalla grande diga che sbarra il corso del Colorado River. Lì sorge la cittadina di Page, punto di partenza per la scoperta di altre due meraviglie: l’Horseshoe Bend, un meandro a forma di ferro di cavallo che come il Grand Canyon si può ammirare dall’alto o via fiume, a bordo di un gommone, e l’Antelope Canyon (accessibile solo in compagnia di una guida Navajo) con le pareti rosso fuoco che paiono onde pietrificate.
Il Bryce Canyon, la tappa successiva, è un parco unico al mondo. Regala a perdita d’occhio la vista dei famosi hoodoos, pinnacoli, guglie, canne d’organo o, meglio ancora, camini delle fate: sono alti fino a 30 metri, si estendono per chilometri disegnando un anfiteatro di roccia rossa (ma anche rosa, arancione, gialla e bianca), e sono la casa di molti animali. Come gli scoiattoli che, per nulla impauriti, si lasciano avvicinare e fotografare dai turisti. I cartelli però informano che è vietato toccarli e dargli da mangiare: la natura ha i suoi equilibri e le sue regole, noi lì siamo semplicemente degli spettatori.
Dal Bryce allo Zion Park il tragitto è breve, e vale la pena di percorrerlo lentamente, assaporando tutta la magia delle rocce rosso fuoco ricoperte di vegetazione che incorniciano la strada. Poi si attraversano i “cancelli” del più antico parco nazionale dello Utah, creato per la tutela del canyon di Zion (una gola lunga 24 km). Verrebbe voglia di fermarsi lì per sempre, come se più a ovest non ci fosse più nulla, a parte l’oceano. Invece vi aspettano altre meraviglie, dalle montagne ricoperte di foreste e cascate dello Yosemite National Park in California, con il monolite granitico dell’Half Dome che buca l’orizzonte, alle piante monumentali e millenarie del Sequoia National Park. C’è anche un luogo dal nome terrificante ma dal fascino unico al mondo, la Death Valley, che a dispetto del nome non è affatto priva di vita, come dimostrano le fioriture primaverili sullo sfondo di rocce e plateau ricoperti di sale. Poi arrivano San Francisco e l’oceano, ma per una pausa-mare rimandate le onde del Pacifico al prossimo viaggio e fate come me: imbarcatevi sul primo aereo diretto ai Caraibi, con destinazione Antigua.
Le spiagge di Antigua sembrano fatte di borotalco, il mare ha il colore del cielo, dal belvedere di Shirley Heights, il punto più panoramico dell’isola (con vista strepitosa su English e Falmouth Harbours) l’orizzonte è in technicolor: promontori, baie, lingue di sabbia, barche e naturalmente il tramonto, tanto che il locale Sunset Party di Shirley Heights è un’istituzione. Ma in questa piccola isola delle Antille, scoperta da Cristoforo Colombo e colonizzata dagli inglesi, non si viene solo per sorseggiare drink davanti allo spettacolo del sole che scompare. Qui si assapora l’altro Caribe, mixato dalla lingua e dallo stile britannico, come testimoniano l’afternoon tea servito in molti alberghi e le partite di cricket. Basta però fare pochi passi sulla spiaggia o entrare nei locali della capitale St. John’s per ballare al ritmo di reggae, soca, calypso. Alla fine è qui che ci troviamo, in uno stato paradisiaco che galleggia nel blu dei Caraibi. La regina Elisabetta II può attendere.